giovedì 28 maggio 2020

STEP#19 - PENSIERO UTOPICO RELATIVISTA

[u-to-pì-a] s.f.
1 In campo filosofico, disegno di una società perfetta, proiettata in una dimensione spazio-temporale indefinita, nella quale gli uomini dovrebbero poter realizzare una convivenza del tutto felice: l'u. di Marx

Ma qual è essere il criterio per giudicare se un’utopia ha carattere utopico o utopistico? Esistono valori assoluti? Esistono, cioè, cose utopiche in sé e altre utopistiche in sé? Forse, già solo per il fatto che non tutti concordano su cosa sia utopico e cosa invece utopistico, è più corretto ritenere che la pietra di paragone siano gli uomini, in particolare la maggioranza: ciò che ai più pare un progetto utopico, sarà tale; ciò che, viceversa, ai più pare utopistico, sarà utopistico.


Quasi tutti gli “ingegneri” di città utopiche nel corso della storia si sono accorti, o almeno hanno intuito, di come, vivendo in una società, si finisca per adeguarsi ad essa e ai suoi costumi, vivendola come l’unica possibile e non come una fra le tante: quasi come se si venisse assorbiti e inghiottiti dalle sue strutture, perdendo la propria autonomia di pensiero.

Questo avviene, probabilmente, perché il nostro pensiero prende sempre le mosse dal contesto materiale in cui ci muoviamo: così chi vive in Europa troverà assolutamente assurde le usanze invalse in Oriente, senza accorgersi che le sue di Europeo, agli occhi di un Orientale, presentano lo stesso carattere di assurdità. Di ciò si accorsero in primo luogo i Sofisti, con quel loro relativismo che investiva ogni ambito della realtà: ma non furono i soli; nell’età in cui risplendevano i Lumi della Ragione, Montesquieu compose una lettera che immaginava scritta da un gruppo di Persiani in visita a Parigi, destinata a dei loro amici in Persia. Da essa traspare un senso di sconcerto per le usanze europee, così diverse da quelle persiane: l'ovvio e il quotidiano diventano l'assurdo e il grottesco e il lettore viene abituato all'ottica del relativismo culturale.


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